a 10 anni
dalla legge 38

10 anni sono un periodo congruo per fare un’analisi seria sull’applicazione della legge 38 sul dolore in Italia. Nata come legge rivoluzionaria che ci avrebbe posto primi in Europa e all’avanguardia nel mondo, la sua mancata realizzazione ha rappresentato una grande delusione. Delusione che fa seguito a quella che è toccata al progetto “Ospedale senza dolore” del 2001. Ma perché un problema così sentito e diffuso tra la gente, quello del dolore persistente e cronico, non riesce a trovare una soluzione adeguata?  Le risposte a questa domanda sono molteplici e vale la pena di elencarle anche senza avere la presunzione di farlo con un criterio di importanza.

1. La prima risposta è la mancanza di specialisti idonei a diagnosticare e trattare i pazienti, sempre complessi, con dolore persistente e cronico. Si è semplicisticamente assunto che un medico specialista in Anestesia e Rianimazione potesse facilmente avere una competenza nel trattamento del dolore persistente e cronico solo per il fatto che la sua quotidiana attività clinica  prevede il trattamento del dolore acuto intra e post operatorio. In questa maniera si sono confuse due situazioni totalmente diverse, il dolore acuto e quello persistente e cronico, non solo dal punto di vista fisiopatologico ma anche rispetto alle possibilità terapeutiche. Inoltre si è accettato de facto il criterio del dolore come sintomo di alcune patologie il cui trattamento fosse sempre intensità-dipendente. Quindi si è immaginato il dolore alla stregua di altri sintomi di malattie, come il vomito o l’astenia o l’’anoressia (tanto per citarne alcuni), ed è stato accettato il criterio del trattamento a gradini (scala dell’OMS per il dolore da cancro). In altre parole si è immaginato che trattare il dolore fosse un’impresa facile che potesse essere svolta anche da medici non specificamente preparati a questo compito. Ed infatti la legge 38, oltre ad affidare agli Anestesisti la gestione del dolore persistente e cronico, previde che alla base della piramide organizzativa per la rete ci fossero i medici di medicina generale debitamente, e rapidamente, istruiti da chi a sua volta spesso mancava di una preparazione specifica. Ovviamente questo progetto risultò fallimentare sia per l’eseguita dei fondi disponibili che per la carenza di professionisti preparati al trasferimento di conoscenze. Inoltre, il fatto che la gestione della rete del dolore sia affidata agli Anestesisti i quali notoriamente hanno tra i loro compiti precipui istituzionali quello di garantire  il corretto ed ordinato svolgimento dell’attività chirurgica o, come drammaticamente visto in questi mesi di pandemia, quello di garantire il funzionamento dei reparti di Rianimazione ha senz’altro derubricato il trattamento del dolore come un compito secondario da svolgere nei “momenti di tempo libero” o addirittura sfidando la legittimità del procedere, al di fuori dell’orario di servizio.

2. Il secondo nodo da sciogliere, mai affrontato con serietà ma sempre fumosamente risolto ricorrendo ad espressioni vuote come “approccio multidisciplinare”, è quello di come integrare la rete del dolore con il lavoro di specialisti molto diffusi nel nostro Paese che quotidianamente svolgono la loro attività curando pazienti con dolore persistente e cronico. Mi riferisco agli Ortopedici, ai Neurochirurghi, ai Fisiatri e ai Reumatologi, tanto per citare i più frequenti. A chi deve rivolgersi un paziente con una lombosciatalgia, per esempio? Il terapista del dolore deve essere consultato per primo o per ultimo? Deve cioè individuare la causa del dolore e/o il suo meccanismo patogenetico e di seguito inviarlo allo specialista più idoneo per trattarlo, insieme alla patologia di base, o invece deve ricevere il paziente da uno dei succitati specialisti qualora il dolore per qualche motivo non si riuscisse a controllare con una specifica terapia causale?

3. E’ mancata la capacità di informare correttamente l’opinione pubblica sulle opportunità fornite dalla legge e questo nonostante il fatto che non mancano certo efficaci e pervasivi mezzi di informazione. Ma sono stati stanziati pochi fondi, i quali oltre ad informare la popolazione, dovevano anche servire per formare i medici di medicina generale attraverso un sistema di formazione a cascata. Ma i fondi si sono esauriti ai primi passaggi e comunque formare i MMG sull’aspetto diagnostico del dolore persistente e cronico, che è probabilmente l’aspetto più impegnativo della disciplina, si è ovviamente rilevato un compito difficilissimo. Questo aspetto ha ulteriormente mostrato la sottovalutazione del corpus dottrinario della disciplina che invece è stata valutata alla stregua di un sintomo che può presentarsi in maniera più o meno intensa.

4. Il sistema di tariffazione in vigore in Italia, quello a tariffa precostituita noto come DRG, presenta notevoli lacune ed aspetti controversi ma quando deve servire per valutare economicamente le prestazioni di terapia del dolore, diventa assolutamente inadatto. Innanzitutto non esistono dei codici specifici ai quali fare riferimento e bisogna prendere in prestito quelli delle patologie di cui spesso il dolore è un sintomo o, peggio ancora, adottare un codice generico di dolore che rende impossibile la valutazione della terapia. Inoltre la terapia chirurgica del dolore è usualmente mini invasiva e permette di essere espletata all’interno di un ricovero di poche ore (day surgery). Però si giova di dispositivi mono uso, mediamente abbastanza cari. Un sistema che, come quello dei DRG attualmente in vigore, penalizza le procedure chirurgiche eseguite in day surgery a favore di quelle eseguite in ricovero ordinario, penalizza pesantemente le tecniche antalgiche. Quindi sono auspicabili e anzi necessari dei codici specifici per la specialità che tengano conto di tutte queste peculiarità.

In ultima analisi e volendo trarre delle conclusioni si può certamente affermare, come ha detto il prof Marinangeli responsabile SIAARTI per la medicina del dolore e le cure palliative, che le cause della mancata realizzazione della legge 38 sono la carenza di anestesisti e di fondi adeguati per l’organizzazione e la tecnologia all’interno degli ospedali. In altre parole si è fatta una legge rivoluzionaria ma non si sono posti in essere le misure indispensabili per la sua attuazione. Ma, a nostro avviso, la questione non è così semplice. Non è solo un fatto di investimenti. È innanzitutto un problema culturale che se non risolto continuerà a vanificare tutti gli sforzi economici.